C’era una volta un bambino che si chiamava Ermenegildo ma tutti lo chiamavano Ermenegildino, per fare prima.
Sebbene Ermenegildo avesse soltanto sei anni, capiva benissimo che Ermenegildino è più lungo di Ermenegildo e quindi non si faceva prima per un cazzo.
Ma comunque, per non mettere a disagio le sue maestre e i suoi vicini di casa e la sua mamma e i nonni, non diceva mai nulla.
Ermenegildo abitava in una piccola casetta su due piani, ai bordi di una grande città piena di rumori, smog e morti ammazzati. E viveva da solo con la sua mamma.
In realtà aveva anche un papà ma, siccome non era mai a casa, Ermenegildo non lo aveva mai visto.
Ogni tanto, la mamma si fermava a guardare fuori dalla finestra, immobile proprio come i peluches che Ermenegildo collezionava sulla mensola sopra il suo lettino, e non diceva niente. Solo dopo un po’, si soffiava il naso e si accendeva una sigaretta.
“Le sigarette fanno male, Ermenegildino…” gli diceva la mamma con gli occhi tristi.
Ed Ermenegildo, sebbene avesse solo 6 anni, capiva già che non aveva senso che la mamma gli dicesse di non fare delle cose che poi lei faceva.
“Quando sarò grande chiamerò tutti come voglio io e dirò a tutti cosa fare e cosa non fare, e poi io farò il contrario.” disse tra sé e sé Ermenegildo. Poi andò a fare la cacca.
Quando tornò, trovò di nuovo la sua mamma triste e sola, e sentì una piccola fitta al suo cuoricino di 6 anni.
Fu allora che Ermenegildo prese una decisione. “Andrò a cercare il mio papà!”, esclamò tutto orgoglioso.
Ma la mamma lo guardò come si guarda una torta completamente bruciata dopo che ci hai perso 5 ore di preparazione e almeno 20 euro di ingredienti freschi, così fece finta di non aver detto niente.
“C’è un ventriloquo qui?” domandò ad alta voce, e corse a rifugiarsi nella sua cameretta.
Ma, una volta nella sua stanzina, non potè evitare lo sguardo severo dei suoi peluches che sembravano chiedergli: “Vuoi fare la nostra fine? Vuoi, per caso, finire anche tu su una schifosissima mensola sbeccata in una buia cameretta di un bambino qualunque, senza la possibilità di fare qualcosa?”.
“Non è sbeccata, la mensola!” rispose Ermenegildo.
“Beh, hai capito il senso!” disse uno dei giocattoli.
Ed Ermenegildo comprese che doveva fare per forza qualcosa, ma non troppo.
“Ho deciso!” disse finalmente. “Aspetterò il mio papà!”.
Sebbene fosse un’idea assolutamente inutile e puerile, Ermenegildo ricordò a se stesso che aveva solo 6 anni e che non è che poteva fare tutto lui.
Così si sedette sulla moquette polverosa del salotto ed aspettò.
Passarono un giorno, due giorni, tre giorni, cinque giorni. Poi, al sesto giorno, Ermenegildo esclamo: “Ehi, che fine ha fatto il quarto giorno?”.
Sebbene avesse solo 6 anni, Ermenegildo sapeva già bene come rompere le scatole al narratore.
Ma egli se ne fregò elegantemente e rimise il bambino seduto ad aspettare sulla moquette.
E fu allora che avvenne l’incredibile: la porta di casa si aprì e, insieme ad un raggio di sole e al rumore di qualche sirena dalla strada, entrò un uomo alto con il cappello e gli occhiali.
“Sei tu il mio papà?” gridò Ermenegildo, con la voce rotta dall’emozione mentre cercava di mettersi in piedi.
“Sì, caro Ermenegildino. Sono io!” disse l’uomo alto con gli occhiali, mentre si toglieva il cappello.
“Fatti abbracciare!” aggiunse, prendendo in braccio il bambino tutto tremante dalla gioia.
“Dove sei stato tutto questo tempo?” chiese severamente Ermenegildo.
“In agenzia…” rispose il papà.
“A fare cosa?”
“Una gara.”
“Una gaaaaraaaaa?? E l’abbiamo vinta?” domandarono gli occhioni del bambino agli occhiali dell’uomo.
“Sì, l’abbiamo vinta.” rispose il papà stringendo a sé il piccolo. “L’abbiamo vinta…”.
Ma il tono della sua voce era quello di un uomo che si era perso tutto il resto.
Lutile
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A me è capitata la stessa favola, più volte, solo che le gare non sempre si vincevano, perdere tutto il resto invece era assicurato 😉
È un sacco di tempo che non passavo di qua.
Giuro che t’ho pensato però, ogni volta che ho letto una di queste.